“Lo sport fa male!” mi piace ironizzare coi pazienti.
E in parte è vero. Ma è anche vero che l’effetto lesivo di uno stress fisico, cardiorespiratorio e metabolico in generale si traduce in uno stimolo a “migliorarsi”. Come se dicessimo al nostro organismo: “per fare questo esercizio non basti, migliorati”.
Per chiarire meglio il concetto pensiamo ai primi giorni di tintarella in estate. I raggi del sole insultano la nostra pelle con una “scottatura” (né più né meno che un’ustione di primo grado); questo elemento lesivo si traduce in uno stimolo alla pelle a proteggersi con una maggiore produzione di melanina da cellule specializzate (i melanociti). Risultato: una pelle più resistente agli insulti del sole. Ecco, per lo sport è lo stesso, e come per la pelle se ci si espone troppo al sole si rischia di farsi male.
Allora qual è il limite che non si deve superare? Quand’è che un esercizio è “allenante” per il nostro organismo e quando invece può determinare problemi (come nel caso del cosiddetto overtraining)?
Avere la risposta a questa domanda risolverebbe non pochi dilemmi.
In realtà ognuno di noi è davvero unico e le variabili da considerare sono così tante che è difficilissimo determinare in maniera precisa quello che è il confine tra il bene e il male. Questo confine è sicuramente più sottile per quegli atleti che praticano sport in presenza di una patologia di base o di fattori di rischio cardiovascolare.
I fattori di rischio sono ormai noti: ipercolesterolemia, ipertensione, fumo, obesità, assunzione di alcolici (in particolare superalcolici), quelli principali. Sono quei fattori che possono contribuire all’insorgenza di un accidente cardiovascolare (come l’infarto cardiaco).
Chi pratica sport ha il vantaggio di poter ridurre in maniera significativa alcuni di questi (ipercolesterolemia, ipertensione, sovrappeso), ma la pratica sportiva non sempre basta.
Innanzitutto dipende da come si pratica lo sport: i soggetti più esposti sono gli sportivi della domenica, cioè chi durante la settimana lavora e conduce una vita sedentaria e stressante, magari accompagnata da vizi come una dieta iperlipidica (ricca di grassi), fumo, consumo di alcolici, per poi arrivare alla domenica per la partita di calcetto con gli amici dando il massimo impegno.
La pratica sportiva deve essere graduale e costante. Molto meglio se ad integrare l’impegno sportivo domenicale si associano, ad esempio, 45 minuti di esercizi aerobici (a bassa-media intensità) tre volte alla settimana, piuttosto che uno sforzo isolato ad alta intensità.
Le spie d’allarme più frequenti per una sofferenza cardiovascolare sono:
– una pressione arteriosa ai limiti superiori (cosiddetta borderline)
– il manifestarsi di aritmie (le famose extrasistoli, dei battiti irregolari che fanno “inciampare” il cuore)
– l’angina pectoris (il dolore al petto all’altezza dello sterno, indice di un “soffocamento” del cuore per una riduzione dell’ossigeno al muscolo cardiaco)
– la dispnea da sforzo (la mancanza di fiato persistente anche per sforzi lievi)
Ognuna di queste spie si accompagna ad altri piccoli segnali. Una pressione arteriosa elevata può dare nausea, cefalea, ronzio alle orecchie, vertigine. Le aritmie si percepiscono come colpi alla gola o come battiti mancanti e si possono accompagnare a stati ansiosi. L’angina pectoris può verificarsi sia in corrispondenza di uno sforzo ed essere tanto maggiore quanto più intenso è lo sforzo (angina stabile), oppure manifestarsi senza una correlazione specifica con una attività fisica (angina instabile).
E’ ovvio che la ricerca personale di queste spie d’allarme è molto utile, ma non sempre riusciamo ad essere dei bravi detective, un po’ perché spesso una variazione dello stato di salute può essere così graduale da risultare impercettibile, e un po’ perché a volte proprio non ci va l’idea di essere malati.
Effettuare degli esami di controllo periodici è il modo migliore per scovare le insidie che si nascondono dietro a un apparente stato di buona salute:
– esami del sangue (emocromo con formula leucocitaria, colesterolemia, funzionalità renale, elettroliti, VES …) anche una volta all’anno dopo i 30 anni di età;
– monitoraggio periodico della pressione arteriosa (possibilmente almeno una volta al giorno per una settimana, lontano dal risveglio e lontano dai pasti, misurata dopo 10 minuti di tranquillità)
– visita dal medico di famiglia o dal medico dello sport anche se si praticano sport leggeri e soprattutto per sport ad alta attività cardiologica anche se non agonistici (come lo spinning).
Queste semplici attenzioni permettono di avere un grande vantaggio nei confronti delle patologie cardiologiche.
Un’altra strategia efficace è quella di una dieta regolare (quella mediterranea è perfetta!): ridurre l’assunzione di grassi (insaccati, formaggi, cibi fritti, …), di cibi salati e di dolci. Così come ridurre al minimo l’assunzione di caffeina e nicotina.
Cosa fare quando una di queste spie di allarme si accende? La cosa migliore è affidarsi a un medico, possibilmente a uno solo. Non tanto per una questione di abilità del medico che può essere più o meno bravo, ma soprattutto perché ogni medico per raggiungere uno stesso risultato può utilizzare metodi diversi.
Pensiamo a quando dobbiamo fare un viaggio da un punto a un altro: possiamo decidere di seguire l’autostrada o una statale. Affidarsi a più medici nel controllo di una patologia si può assimilare al voler percorrere contemporaneamente più strade, con l’effetto di ritardare il nostro arrivo alla meta e a volte anche di sbagliare completamente strada!
Il primo referente deve essere il medico di famiglia.
Il paziente/atleta ha il vantaggio di avere come interlocutore anche il medico dello sport che entro certi limiti potrà monitorare la situazione con idonei approfondimenti (elettrocardiogramma a riposo e dopo sforzo, test al cicloergometro, Holter, solo per citare i più frequenti); nel caso dell’instaurarsi di una patologia si verrà indirizzati allo specialista e quindi al cardiologo.
Infine anche in presenza di uno stato di malattia cardiologica non ci sarà nessun problema a svolgere un’attività fisica, anzi nella maggior parte dei casi è consigliata, anche quella di tipo agonistico.
Il cardiologo e il medico dello sport decideranno quale attività in base alla patologia è idonea o no per il paziente.
Insomma, tutto sommato… lo sport fa bene!
Dott. Enrico Salis – Medico Specialista in Medicina dello Sport – Polimedica Pradamano