Se l’etica è il barometro che suggerisce come comportarsi in base a ciò che si ritiene più giusto e se cambia a seconda delle persone, che relazione può esserci con lo sport e come si fa a capire quali siano i valori corretti e quali quelli sbagliati?
Sono domande con cui ci misuriamo tutti i giorni e cui piacerebbe rispondere, proponendo modelli di vita cui ispirare i nostri atleti. Per chi organizza lo sport – il calcio nel nostro caso – educare a valori come l’amicizia, la condivisione, il fair play, l’aggregazione, l’inclusione, il divertimento, il rispetto verso compagni, avversari e arbitro, non è sempre un compito facile. Prevale lo stereotipo di un gioco vissuto quasi come un rito, dove vincere e imporsi sugli altri diventa prioritario rispetto alla voglia di divertirsi e confrontarsi, pur se attraverso la gara. I media, poi, di certo non aiutano: tra processi alle intenzioni e giudizi sommari, si finisce per comunicare un’idea distorta del gioco, che nulla ha a che fare con lo sport. Se associamo tutto questo alla scarsa cultura sportiva che c’è in Italia, si capisce perchè chi propone un calcio alternativo fatichi a trasmettere i propri ideali. E così le partite, giocate da atleti provenienti da contesti sociali diversi, uniti soltanto dallo stesso colore della maglia, ma non da ideali comuni, talvolta degenerano. Sfide dove il contatto fisico è all’ordine del giorno e difficilmente si distingue il confine tra lecito e illecito. Succede allora di ritrovarsi dai campi dilettantistici e amatoriali alle aule dei tribunali. Un caso su tanti ci riporta in Carnia, durante un match d’alta classifica, quando due giocatori sono venuti alle mani senza che il direttore di gara potesse assistere alla scena. Al di là dei torti e delle ragioni – le tesi sono ovviamente tra loro discordanti -, l’episodio induce a interrogarsi sulle cause e sui possibili rimedi a simili storture. Abbiamo voluto chiederlo a due atleti che da moltissimi anni calcano i campionati della Lcfc.
Il primo è un portiere, Tommaso Chiarandini, ruolo che gli permette di avere la prospettiva di tutto il rettangolo di gioco. Laureato in Storia, 32 anni, di Udine, ha una sua idea sul perché possano accadere certi episodi. “A mio modesto parere uno dei maggiori vantaggi, anche sociali, che dà lo sport è di riuscire a sublimare gli istinti violenti dell’uomo – dice -. Si “gioca alla guerra”: due schieramenti organizzati che hanno bandiere, formazioni e devono raggiungere obiettivi tattici e strategici. La distinzione tra guerra e sport, però, sembra sfuggire, almeno a qualcuno. E qui si fonda una delle due origini del problema: ci si immedesima talmente tanto nel gioco, da non riuscire più a venirne fuori. L’evasione – continua Tommaso – diventa la realtà e il cortocircuito è completo. La sconfitta sul campo da gioco diventa una minaccia esistenziale, le prese in giro dagli spalti inaccettabili provocazioni diplomatiche, le rivalità sportive guerre fredde 2.0. Il problema grosso è che tutto questo pesca nel subconscio: difendere il proprio villaggio, le proprie donne, la propria “roba”, il noi contro loro. E’ istinto. Con profondo pessimismo esistenziale, posso solo dire che per uno che arriva così ai 40 o 50 anni, c’è poco da fare. In assenza di una figura che – come lo schiavo che mormorava ai generali romani in trionfo “ricordati che devi morire”, e cioè che erano comunque umani – sussurri all’orecchio a tutte le teste calde e agli esaltati di quartiere “ricordati che è solo un gioco, e lunedì timbri il cartellino”, a parlare devono essere arbitri, cartellini e sanzioni disciplinari”.
Parte da un concetto educativo, invece, Carlo Pecile, 52 anni, di Magnano in Riviera (Ud) , in passato ciclista di buone speranze e poi, per diletto, trasferitosi sui campi di calcio. “Purtroppo, viviamo in un mondo dove sembra che tutto sia dovuto – osserva -. Ritengo quindi che per minimizzare episodi di violenza sia necessario partire dalle basi, dai genitori, dalla scuola, da chi educa nello sport. Sono loro che devono dare il buon esempio, anche attraverso gesti semplici, e creare una sorta di carta d’identità del fair play da subito, spiegando i valori che devono accompagnare una sana vita sportiva. Ma spesso non è così e le diatribe verbali, la lotta per un figlio che potrebbe diventare un campione, mette tutto in secondo piano. Si tratta di condotte deleterie – continua Carlo –, soprattutto nelle categorie giovanili, in contesti dove il terzo tempo, lo stare assieme, il condividere gioie e amarezze dovrebbero essere il viatico per insegnare come comportarsi non solo nello sport da grandi, ma anche nella vita”.
Ma cosa fa la Lega Calcio Friuli Collinare per prevenire questi episodi? Cerca di studiare regole che possano prevenire comportamenti soliti del calcio dell’interesse, del business e attraverso le norme portare una filosofia sportiva differente. L’assenza di vincolo, ad esempio, impedisce l’insinuarsi delle perverse regole del mercato e, quindi, il trasferimento per soli fini economici, da una squadra all’altra, ma consente di scegliere la formazione con cui giocare. Premiare i gesti virtuosi e non evidenziare quelli negativi, mettere al centro di ogni cosa la Coppa Disciplina, istituto che può decidere anche promozioni e retrocessione, l’applicazione dei due punti per vittoria, utilizzare un cartellino diverso (verde) per poter allontanare, senza penalizzare i propri compagni, giocatori che si rendano protagonisti di grosse offese verso arbitri e avversari, sono piccoli meccanismi per educare e frenare potenziali episodi di violenza. Sono regole che hanno portato negli anni a una diminuzione radicale di atti illeciti in un movimento che continua a credere che lo sport – come ha sempre sostenuto Nelson Mandela – può avere la forza di cambiare il mondo, perché parla una lingua universalmente nota.